Come ogni secondo lunedì del mese, anche oggi pubblicherò la recensione di uno dei libri che più mi hanno emozionata quest’anno e ho scelto le Lettere appassionate di Frida Kahlo, a cura di Martha Zamora.
Il libro, edito da Abscondita, è un vera e propria cronistoria della vita di questa artista straordinaria ma raccontata dall’interno, con le sue proprie parole.
Quando ero all’Università mi capitò di vedere dal vivo delle opere di Frida Kahlo esposte al Castel dell’Ovo a Napoli, la mia città. Ricordo tutto di quella giornata. Il vento che soffiava sul mare, il rumore delle onde che sbattevano contro le mura del castello, il cielo grigio e… l’anima in subbuglio. Mi fece un effetto incredibile vedere le opere della Kahlo dal vivo. Non solo il suo tratto così peculiare e in qualche modo dirompente, ma anche il modo di esporre se stessa, il proprio corpo martoriato, la maternità negata, il desiderio di vivere, la resilienza, l’amore per una natura selvaggia… tutto questo stava dentro quei quadri così potenti da non poter essere guardati troppo a lungo.
Ecco, quei ricordi non sono mai usciti fuori da me. Non credo mi abbandoneranno mai, come un’epifania.
Dentro quei quadri per me c’è scritto: non importa come, con che mezzo, con che linguaggio, con che strumenti, se hai qualcosa da esprimere è lecito che tu lo faccia. Contro ogni critica, contro ogni legge o regola. È lecito.
Quando ho letto queste Lettere appassionate, ho ripercorso tutta la storia della vita di questa artista che ha dovuto aspettare la morte per essere consacrata icona indiscussa dell’arte perché nella sua epoca era semplicemente troppo avanti, in modo assolutamente lontano dal canone, un canone dettato come si può ovviamente immaginare, da una ristretta cerchia di artisti uomini.
Si parte da poche lettere che Frida scrisse ad Alejandro Arias, suo compagno di scuola e suo innamorato, nel 1924/25, prima dell’incidente che le stravolse completamente l’esistenza. Queste poche righe ci restituiscono l’immagine di una ragazza piena di vita, fuori dai canoni, sfrontata e allegra, che ha in mente di viaggiare e scoprire il mondo, di abbandonare il Messico per sperimentare, vedere e provare tutto ciò che il futuro ha da offrirle. Poi l’incidente stradale, a cui lo stesso Alejandro assistette in prima persona, e l’inizio del calvario, dei dolori, delle mille operazioni, delle terapie, dei medici che si susseguivano senza sapere bene cosa fare, gli aborti… un corpo spezzato, martoriato e oppresso dal dolore.
Ma è durante la degenza in ospedale che Frida inizia i suoi primi dipinti, che sono ritratti e autoritratti e che scopre quanto le sia necessaria l’arte che le consente di esprimere se stessa e la sua resilienza:
“Ho iniziato a dipingere a dodici anni mentre ero convalescente da un incidente automobilistico che mi costrinse a rimanere a letto per circa un anno. Ho sempre lavorato sotto l’impulso spontaneo dei miei sentimenti. Non ho frequentato nessuna scuola, non sono stata influenzata da nessuno; dal mio lavoro non mi sono mai aspettata altro che la soddisfazione che mi dava il fatto stesso di dipingere ed esprimere quello che non avrei potuto esprimere in altro modo”.
E così veniamo trasportati, leggendo queste Lettere appassionate di Frida Kahlo, lungo tutta la storia della sua vita: l’amore e il matrimonio con l’artista Diego Rivera, il trasferimento al suo seguito in America (quella che lei definisce con disprezzo “gringolandia”), il ritorno in Messico, la separazione dal marito, la sua mostra personale organizzata in Francia da Duchamp e così via, fino alla sua morte, avvenuta il 13 luglio del 1954 all’età di soli 47 anni per una embolia polmonare.
“Sono riuscita nell’intento di trovare una modalità espressiva personale senza che nessun pregiudizio mi forzasse a farlo. Per dieci anni il mio lavoro è consistito nell’eliminare tutto quello che non nasceva dalle motivazioni interne che mi spingevano a dipingere”.
E io credo che ci sia riuscita.
Frida Kahlo, una delle poche, pochissime artiste che si è davvero liberata del canone per creare un linguaggio del tutto suo, originale e fuori da ogni ordine precostituito. E questo è ciò che i suoi quadri ci trasmettono ancora oggi: la forza della resilienza, la possibilità di scrivere il proprio linguaggio per dar voce all’urgenza espressiva che sta dentro ogni essere umano.
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